Lanfranco Raparo, Marradi

Lanfranco Raparo, Marradi

mercoledì 21 novembre 2012

Il perché di una lapide


Una poesia per la pace
nella facciata del Castellaccio
di Francesco Cappelli



settembre 2004.
Sta per cadere la bandiera 
che copre la lapide



C'è una poesia, nella facciata del Castellaccio, con una storia da raccontare. Ecco che cosa dissi nel settembre 2004 quando la lapide sulla facciata venne scoperta.

Gentili Signore, Alpini, cari amici
mi corre l'obbligo di ringraziare tutti i presenti, le autorità civili e religiose, ma il mio grazie più sentito e doveroso è rivolto ai familiari di Giulio Bedeschi che oggi, a distanza di oltre 60 anni, ritornano in questi luoghi, in questa terra, che li vide giovanetti svagarsi e crescere in armonia con la natura e serenità d'animo con i coetanei marradesi di allora.
Molti di voi si chiederanno il motivo, il perché di questo incontro, di questa che vuole essere una semplice rievocazione e celebrazione.
Non è mia intenzione tediarvi con discorsi lunghi e noiosi, ma ritengo importante e necessario illustrarvi il come e il perché oggi vi si è giunti. Nel giugno 1994, assieme agli amici Tarabusi e Mercatali (sostenuti dall'Amministrazione comunale e dalla Associazione Culturale locale) avevamo allestito una mostra di reperti storici, foto e documenti, per ricordare ai giovani che cosa avesse significato la guerra in generale, per Marradi in particolare. Fu in quella occasione che Beppino Matulli (ora scomparso) nel visitare la mostra, mi ricordava che la famiglia Bedeschi, durante l'estate, era solita soggiornare a Marradi e che tra i rispettivi genitori era sorta un'amicizia spontanea ...

Allora non feci caso al discorso in quanto sapevo che l'ammiraglio Bedeschi di Faenza (grande invalido della guerra 1940 - 45) veniva tutti gli anni a Biforco a villeggiare e qui avevo avuto modo di conoscerlo essendo amico dei suoi due figli. Ma il Bedeschi ricordato da Beppe era altra persona, era l'alpino Giulio, autore del famoso "Centomila gavette di ghiaccio". La prova mi venne offerta dal nipote di Beppe, Ernesto, (anche lui alpino) a cui devo il mio grazie per aver contribuito alla realizzazione di questa mostra.
Egli mi mise a disposizione quel libro con tanto di dedica. In essa Giulio scriveva: "A Beppino Matulli dedico con fraterna amicizia queste mie pagine, nel ricordo di un tempo lontano, ma presente e vivo, della nostra giovinezza e dei nostri genitori. Giulio".
L'interesse di questa scoperta mi spinse a fare ricerche, a telefonare a destra e a manca ai familiari di Giulio i quali hanno avuto la gentilezza e la pazienza di sopportarmi per tutti questi anni.
Dalle ricerche effettuate, qua oggi potete constatare un piccolo risultato, ma significativo, a testimonianza che la famiglia Bedeschi in questi luoghi soggiornò frequentemente trovandovi pace e serenità.

Giuseppe Bedeschi, fratello di Giulio,
alla cerimonia del Castellaccio

E proprio qui il padre di Giulio nel 1941 ideò e scrisse la poesia che andiamo a scoprire e che resterà a testimoniare che Marradi, il Castellaccio di Biforco, ospitò l'autore di uno dei libri di memorie di guerra più letti nel mondo, diversi passi del quale nelle scuole vengono ancora proposti alla riflessione delle nuove generazioni perché comprendano il grande valore della PACE, una pace purtroppo sempre in bilico.
Nel mondo c'è sempre un Caino che agita minacciosamente la clava (e qui ho ripreso la frase di Giulio dal suo romanzo "La mia erba è sul Don").
Mentre in Italia i padri costituenti, dopo i tragici eventi del XX secolo che ci hanno visti protagonisti e vittime di due guerre mondiali, hanno esplicitamente  scritto fra i primi articoli della Costituzione che "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli ...".
Vorremmo tutti la pace, quella pace che ci è stata offerta con il sacrificio di centinaia di migliaia di vite umane.
Perdonatemi questo inciso che credo doveroso.


 
Sopra: la cartolina postale
 che sul retro ha la poesia.
A fianco: il testo della poesia


Ritornando al perché di una poesia scritta da un padre che si bea, gode della natura che lo circonda, a un figlio alpino lontano e in guerra, si possono fare ipotesi suggestive. Questa poesia, composta nel ferragosto del 1941, viene stampata su cartolina postale, con foto del Castellaccio, e inviata nel settembre dello stesso anno al figlio Giulio che si trova sul fronte Greco - Albanese forse nel tentativo, (almeno io credo), di sottrarlo per un attimo alle angustie e ai tormenti della guerra e fargli rivivere e forse sognare quella serenità e pace della villa del Castellaccio " ... che lenisce le pene e gli affanni" e che Giulio e i famigliari avevano trovato (concedetemi questa mia illusione).
Giulio resterà per tutta la vita riconoscente a un padre che, anche dal piccolo gesto che ho citato, indubbiamente mostrava cultura, sensibilità d'animo, amore per la natura e per la vita, tutte qualità che si ritrovano nel figlio.
A dimostrazione di questa corrispondenza affettiva, Giulio dedica al padre il suo capolavoro con queste parole "Alla memoria di mio padre, testimonianza d'amore, di devozione e di rispetto".
La conferma che Giulio aveva un animo nobile, sensibile e riconoscente, è dimostrato in questa sua opera dal fatto che, nella dedica, oltre ai compagni caduti, subito dopo vengono i suoi alpini e per questo noi gli dobbiamo un grazie riconoscente. Anche perché egli ci offre più di un insegnamento. Egli infatti non guarda la scala gerarchica, anzi sembra volerla rovesciare.

Francesco Cappelli 
e Giuseppe Bedeschi


Come alpino è semplice e generoso, ama gli umili nei quali individua i valori dell'altruismo, del senso del dovere, dell'onestà. Dopo la famiglia naturale e quella d'armi, la sua dedica va a un alpino conducente di muli, "Scudrera", uomo semplice, forte e robusto, ma generoso e dedito al sacrificio senza chiedersi mai perché, forse perché, ci vuol dire Bedeschi, il sacrificio è la sostanza stessa della vita, e non solo in guerra: forse in questo alpino, tratto dall'anonimato dalla sensibilità artistica di Giulio egli vedeva incarnate tutte le principali doti degli alpini stessi.


Un momento della cerimonia.


Qui con noi oggi c'è Beppe, fratello di Giulio, anch'egli alpino, anch'egli reduce dalla Russia, testimone oculare vivente di quei tragici avvenimenti. Egli conserva gelosamente l'ultimo cannone che doveva essere inviato in Russia, a protezione di quel tragico ripiegamento.
E qui gli rinnovo non solo il mio personale grazie ma, sicuro di farmi interprete dei sentimenti di voi tutti che oggi siete intervenuti, anche la vostra sincera riconoscenza.
E infine, come non citare le due signore, cioè la sorella Bruna a cui mi sono rivolto costantemente per avere notizie di Giulio, la sig.ra Luisa, la quale non conoscendo questi luoghi assecondava volentieri il marito quando dalla Toscana questi si recava nella vicina Romagna e desiderava passare di qua per rituffarsi ogni volta nei suggestivi luoghi resi ancor più cari dagli struggenti ricordi giovanili.
Per l'amore che ella ha avuto per il suo uomo e perché ne ricordassimo degnamente la memoria, egli ha dedicato un cospicuo premio annuale per il miglior racconto di ambientazione montana. Anche il tema scelto, come potete capire, è significativo della sensibilità della sig.ra Luisa. Termino scusandomi se sono stato troppo lungo, conosco la pazienza degli alpini e io ne ho approfittato. Perdonatemi se qualcuno o qualcosa ho tralasciato, ma quel che ho detto l'ho ritenuto necessario, sia come momento di rievocazione storica locale, sia per delineare qualche aspetto di un grande uomo, di un grande scrittore, di un degnissimo alpino.

Francesco Cappelli




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