Lanfranco Raparo, Marradi

Lanfranco Raparo, Marradi

domenica 20 novembre 2011

L'allevamento domestico del baco da seta

Il ricordo di Leonora Ceroni Calderoni
detta Isea - Marradi, 20 ottobre 2002.
di Luisa Calderoni

Isea

“Prima di parlare del baco da seta è bene parlare di cosa si nutriva e cioè del gelso. Il podere in cui vivevo, “la Casa” di Sant’ Adriano, era pianeggiante e in un terreno che costeggiava il fiume, c’erano due file di gelsi lunghe circa 400 metri.
L’ultimo allevamento del baco da seta nel nostro podere risale al 1944 perché in luglio ci fu il passaggio del “Fronte”, i nostri campi furono distrutti da bombe e cannoneggiamenti e furono poi usati come campo di aviazione dagli “Alleati”.
Io nel 1944 avevo 17 anni. Ricordo bene le piante di gelso che dovevano essere state messe a dimora ai primi del ‘900: infatti la corteccia era molto liscia e non rugosa come quella di un albero vecchio. Il tronco era lungo circa due metri e a quell’altezza era stato potato per far nascere altri rami più teneri le cui fronde, crescendo ad ombrello, erano facili da sfogliare.

... ricordo bene le piante di gelso ...

Il gelso è fortemente legato alla storia della mia famiglia perché nel 1925, quando io non ero ancora nata, mio padre che stava sfogliando il gelso per nutrire i bachi da seta, cadde dall’albero rompendosi entrambe le braccia.
Poiché la proprietaria del podere aveva stipulato un’assicurazione specifica a favore di chi si fosse infortunato cadendo da un gelso, mio padre ebbe un risarcimento di 2.350 lire.
I primi ricordi dell’allevamento domestico del baco da seta risalgono alla mia infanzia. Allora i bachi li vedevo solo quando erano già grandi ma non sapevo niente della loro provenienza.

... Il gelso è fortemente legato
alla storia della mia famiglia ...
                                                                                                 La famiglia Ceroni negli anni Venti e la proprietaria, con l'ombrellino.

Poi scoprì che alla fine di aprile, puntualmente, come tutti gli anni che seguirono, al nostro podere arrivava un pacchetto grande circa 20cm per 10 e alto 5 cm. Era indirizzato alla nostra famiglia ma il mittente non era scritto in italiano…
La mia mamma, sorridendo, mi spiegava che conteneva le piccole uova dei bachi da seta che venivano da un paese molto lontano. Mentre lei apriva la scatola io ero molto attenta a guardare tutto: dentro il pacchetto c’era un piccolo sacchettino bianco di stoffa molto leggera e poi c’erano due telaini fatti con la medesima stoffa. Sia il sacchetto, sia il telaino avevano dei piccoli fori grandi come una capocchia di spillo.

Il podere La Casa

La mamma, con delicatezza, avvolgeva il sacchettino in una stoffa bianca, si apriva la sottoveste e poneva il sacchettino tra i seni dicendomi: ”Ora, con il calore del mio corpo, le uova si schiuderanno e nasceranno i bachi … poi vedrai come diventeranno grandi!”
Io ero preoccupata perché avevo paura che i bachi invadessero il corpo di mia madre!
Noi a “ La Casa” avevamo una stanza apposita per l’allevamento dei bachi e la chiamavamo “la bigattaia” (2), la bigatéra in romagnolo. Qui mia mamma teneva il fuoco acceso perché i futuri bachi avevano bisogno di tepore. Dopo pochi giorni la mamma mi chiamò perché i bachi stavano nascendo e una volta aperto il sacchetto vidi dei puntini neri che si muovevano tra le altre uova ancora chiuse. Mia mamma mise su di loro due piccole foglie di gelso mentre teneva pronti in grembo i due telaini bianchi. In poco tempo le foglie di gelso si ricoprirono di punti neri e così avvenne il primo trasloco dei bachi: questa operazione continuò finché tutte le uova non si furono dischiuse.
Poi cominciò la fase della vera nutrizione. All’inizio le foglie di gelso venivano arrotolate e tagliate sottili come dei tagliolini e il pasto veniva dato due volte al giorno.
Tutte le mattine i bachi salivano sulle foglie sempre più grandi perché, affamati come erano, erano molto svelti a salire e man mano che crescevano venivano trasferiti in stuoie sempre più grandi. I bachi in effetti crescevano a vista d’occhio!
Dopo sette giorni dalla nascita i bachi facevano la prima muta, smettevano di mangiare e si addormentavano. Al loro risveglio li coprivamo di foglie e li trasferivamo su nuovi telai grandi circa un metro quadrato, sostenuti da aste di legno sul cui fondo si stendeva una carta speciale che diventava la nuova lettiera dei bachi. Gli escrementi che venivano eliminati erano pieni di pellicine lasciate dai bachi in muta. Nei giorni che passavano dalla prima alla seconda muta, i bachi aumentavano di peso e di grandezza e non riuscivano più a stare nei telai: allora si preparava un’ impalcatura che aveva quattro montanti da inserire in quattro basi di legno.

... allora si preparava un'impalcatura ...


Nei pali portanti c’erano dei fori distanti una decina di centimetri in cui si inserivano dei pioli su cui si appoggiavano le stuoie fatte di foglie di bambù intrecciate. Le stuoie potevano essere alzate o abbassate a seconda della temperatura perché se era caldo occorreva allontanarle mentre se faceva freddo venivano avvicinate.
Ogni impalcatura poteva sostenere cinque o si stuoie così grandi che per muoverle bisognava essere almeno in quattro.
Alla seconda muta i bachi erano già nelle stuoie e il lavoro aumentava perché le stuoie piene di escrementi dovevano essere ripulite e lasciate asciugare bene prima di rimettervi i bachi.

... alla seconda muta i bachi
erano già nelle stuoie ...


A fianco: L'allevamento dei bachi fatto per esperimento alle scuole medie di Marradi negli anni Sessanta.

Si riconoscono Marta Scalini (a sinistra), Matilde Nati  e Otello .

Anche per raccogliere le foglie di gelso c’erano le ore adatte perché non dovevano essere bagnate: al mattino c’era la rugiada e in pieno giorno faceva troppo caldo e le foglie, stando nei sacchi di iuta, ribollivano e non erano adatte ai bachi. L’ora giusta per raccogliere il gelso era un’ora prima del calar del sole.
Dalla seconda alla terza muta c’era il massimo del lavoro. Si sgombrava la cucina trasferendo ciò che serviva per mangiare in un capanno all’esterno e venivano costruite altre due impalcature. Anche tenere puliti i bachi era un lavoro lungo e faticoso perché li dovevamo raccogliere con una “ panara” (1) di legno e poi li distribuivamo con cura sulle stuoie pulite coperte di foglie di gelso tritate a macchina.
Per me raccoglierli era un po’ fastidioso perché i bachi avevano delle ventose con cui si attaccavano alle dita. Nel frattempo gli uomini andavano a raccogliere dei rami di ginestre che poi disponevano al sole ad asciugare.

... gli uomini andavano a raccogliere
dei rami di ginestre ...


Al centro della foto: i rami di ginestra con i bachi bianchi attaccati

Al quarantesimo giorno di vita il corpo del baco cominciava a riempirsi di seta liquida, il baco diventava color ocra trasparente e alcuni di loro cominciavano a secernere la bavetta e io mi divertivo a tirare quel filino quasi invisibile. Quando la prima stuoia di ginestre era pronta cominciavamo a trasferire delicatamente i bachi sui rami stando attenti che fossero distanziati tra di loro e a non ucciderli perché morendo i bachi avrebbero sporcato gli altri bozzoli. I bachi si distribuivano sui rami e cominciavano a costruire il bozzolo. Io li guardavo incuriosita vedendo che erano molto indaffarati ad agganciare la bava alla ginestra affinché il bozzolo non cadesse dal ramo. Attraverso il bozzolo ancora trasparente osservavo il baco che muoveva la testa mentre dalla bocca gli usciva il filo di seta. Non mi ricordo quanti giorni passassero prima della raccolta dei bozzoli, era la mamma che stabiliva il giorno in cui si dovevano raccogliere deponendoli in grandi cesti di vimini. Dopo c’era la scelta e la pulizia dei bozzoli, si toglieva la seta superflua detta “spelaia” (3) e si scartavano i bozzoli macchiati e i “doppioni” (4).
I bozzoli scelti venivano portati alla Filanda Guadagni di Marradi mentre tutti gli attrezzi usati venivano riposti in soffitta ma non c’era tempo per ripulire i telai e le stuoie perché il grano era maturo e pronto per essere falciato.
Un giorno io salii in solaio e vidi che sul muro c’erano tante farfalle bianche uscite da alcuni bozzoli attraverso un piccolo foro. Capii così che dal bozzolo usciva una farfalla che prima di morire deponeva su di sé le uova per dar vita a dei nuovi bachi…”


Il libretto di lavoro di una filandaia e una matassina 
di seta della filanda Guadagni Nati Vespignani.

Note:
1) la panara era una grossa paletta di legno, che serviva a togliere il pane dal forno
2) il baco da seta era chiamato bigatto da cui bigattaia, locale per l'allevamento del baco da seta.
3) la spelaia o bavella era la prima seta secreta dal baco per fissarsi al cosiddetto “bosco”. Veniva raccolta e filata dai contadini formando una seta di bassa qualità
4) il “doppione” era il bozzolo doppio prodotto da due bachi che formano un unico bozzolo contenente due crisalidi. Il doppione era costituito da bava di seta doppi da cui si ricavava il preziosissimo shantung, tessuto ricco di nodi, fiammature e imperfezioni.

1 commento:

  1. Sabatino Occhiolini28 marzo 2015 alle ore 22:01

    Trovo l'articolo interessante, anche perché ho vissuto quei tempi in cui si allevava i bachi in casa a Marradi nel dopoguerra (mia nonna), mi piacerebbe postare le foto in bianco e nero su sei di Marradi se.......non tutti vengono a curiosare sul vostro ottimo sito.......si può fare?

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